Chi dobbiamo temere: l’uomo o la natura?
Al termine dell’ultima giornata del 20° Congresso Nazionale della Società Italiana di Tossicologia si è proposto un fish-bowl dal titolo “Chi dobbiamo temere: l’uomo o la natura?” in cui sono intervenuti gli esperti: Carlo A. Locatelli, Donatello Sandroni, Emanuela Testai, Marco Vighi e Roberta Villa. Dalla discussione di gruppo è emerso come la continua crescita di fiducia nei confronti di ciò che è di origine naturale, e di un irrazionale timore nei confronti delle sostanze di origine antropica crei la premessa di un duplice problema. Da una parte si rischia di sottovalutare il potenziale tossico delle sostanze di origine naturale, magari utilizzate in ambito farmaceutico, cosmetico o nutrizionale, e dall’altra di sopravvalutare quello delle sostanze di origine antropica.
L’essere umano è esposto quotidianamente a numerose sostanze potenzialmente tossiche, e sebbene spesso nell’immaginario comune esse sono associate solo a sostanze chimiche prodotte dall’uomo, è altresì la natura stessa ad esserne particolarmente ricca, più di quanto ci si potrebbe aspettare. È sufficiente pensare ai metalli presenti nell’aria, nel suolo e nell’acqua o alle tossine naturali ampiamente distribuite nell’ambiente.
In natura troviamo circa mille piante che contengono sostanze potenzialmente tossiche. Si spazia da alcune specie vegetali di uso comune per l’alimentazione come le patate, l’albicocca, il prezzemolo a piante velenose come la cicuta, la belladonna, il mughetto o l’oleandro. È chiaro che è la qualità, quindi la natura chimica, ma anche la quantità della sostanza a decretarne la pericolosità. Tuttavia, la percezione della popolazione su questo aspetto è molto diversa.
L’uomo spesso si dimentica di dover temere anche ciò che la natura produce. La paura è irrazionale, da un lato fa sì che ci si attenga scrupolosamente alle indicazioni del foglietto illustrativo di un farmaco, dall’altro invece ci porta ad abusare di integratori naturali o dei cosiddetti super food (spesso acquistati senza consigliarsi col medico e/o farmacista) in quanto percepiti come naturali e quindi automaticamente salutari e privi di rischio, senza considerare che quegli integratori possono andare ad antagonizzare gli effetti di una eventuale terapia in corso o causare effetti avversi. Negli ultimi anni, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Hepatology, negli Stati Uniti sono aumentati dal 7 al 20% i casi di danni epatici da abuso di integratori alimentari naturali e fitoterapici.
È evidente che la sottovalutazione dei rischi delle sostanze di derivazione naturale sia molto preoccupante, ma è altrettanto pericolosa la diffidenza nei confronti delle sostanze chimiche (intese come prodotti dell’attività umana). Questo atteggiamento può avere ripercussioni sulla salute di molti; ad esempio, la convinzione che le terapie non convenzionali abbiano minore tossicità rispetto ai farmaci convenzionali spinge molti al ricorso all’omeopatia o al rifiuto dei vaccini pregiudicando l’accesso a terapie e trattamenti per cui c'è una buona evidenza di sicurezza ed efficacia.
Inoltre, l’atteggiamento chemofobico contrasta il progresso dei processi produttivi, ad esempio quello agricolo dove i fitosanitari vengono percepiti come qualcosa di nocivo apriori e quindi non dovrebbe essere utilizzati in nessuna circostanza, trascurando – o ignorando – che senza il loro utilizzo non si riuscirebbe a raggiungere una produzione soddisfacente, né dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Ma come nasce quindi l’accezione negativa della parola chimica?
Quali sono le origini della chemofobia?
Sebbene in passato l’immagine della chimica non è sempre stata così negativa, bensì era associata ad elementi di benessere, a poco a poco fattori come l’inquinamento delle grandi città, l’uso dei gas tossici (specialmente cloro, fosgene e yprite) durante la Prima guerra mondiale influenzarono negativamente l’opinione pubblica.
Inoltre, singoli eventi come le tragedie di Seveso, Bhopal o Chernobyl ebbero grande impatto emotivo sulla popolazione, aumentando la diffidenza nei confronti dei prodotti di sintesi.
Negli ultimi decenni quindi la chimica ha assunto sempre di più una connotazione negativa, spesso penalizzata da una comunicazione mediatica non positiva. Difatti sui mass-media la chimica fa notizia principalmente in relazione all’inquinamento, ai disastri ecologici oppure nella pubblicità dei prodotti “chemical free”. Ne consegue quindi che spesso la parola chimica genera un pregiudizio irrazionale, un’avversione appresa che si associa a preconcetti errati che non hanno alcun fondamento né scientifico né tanto meno tossicologico.
Come evidenziato da uno studio pubblicato su Nature Chemistry, l’irrazionale timore nei confronti della chimica si fonda su bias cognitivi e istinti irrazionali. Dai risultati della ricerca è emerso che la chemofobia deriva da grandi lacune nella conoscenza delle implicazioni della chimica nel mondo reale e nella vita quotidiana, oltre che da una bassa conoscenza dei consumatori sui principi della valutazione della sicurezza e la correlazione di tali conoscenze, nonché della fiducia negli enti regolatori.
È così che la parola “chimica” si trova oggi, ingiustamente, a dover sostenere un’illogica contrapposizione con “naturale”. Ecco allora che diventa fondamentale un approccio informativo, non solo attraverso l’insegnamento e l’educazione per i giovani ma anche mediante
la divulgazione e la comunicazione del rischio tossicologico per il grande pubblico. Avendo chiari concetti di tossicologia di base, come il concetto del pericolo, del rischio e della dose, si può comprendere come la pericolosità di una sostanza non dipende dalla sua origine, naturale o antropica, ma dalla qualità e dalla quantità della sostanza. E quindi dalla dose. Una nozione quest’ultima spesso sottovalutata, e alla base di numerose fake news, ma elemento determinante nel manifestarsi dell’effetto tossico.