
Delitti silenziosi: la tossicologia sulla scena del crimine
di Gloria Melzi
Nel mondo del true crime, ogni dettaglio può essere la chiave di svolta per risolvere un caso. Tra impronte digitali, tracce di DNA e alibi incrociati, c’è una scienza indispensabile che spesso passa inosservata: la tossicologia forense. Il tossicologo forense entra in scena quando si sospetta un avvelenamento, o quando una morte improvvisa solleva più domande che risposte. Uno dei suoi compiti è scoprire se sostanze chimiche, farmaci o veleni hanno avuto un ruolo nel crimine.
La tossicologia applicata ai casi criminali analizza campioni biologici, come sangue, urine, capelli o tessuti, per identificare la presenza di sostanze tossiche. Questo può includere farmaci da prescrizione, droghe d’abuso, alcool, veleni come l’arsenico e il cianuro, e pesticidi, talvolta usati in omicidi premeditati.
Per scoprire la verità dietro una morte sospetta, i tossicologi entrano in azione con tecniche avanzate sui cui si basano tutti i film investigativi. Uno dei principali alleati è la spettrometria di massa, una tecnica che riesce a identificare anche le tracce più microscopiche di sostanze chimiche nel corpo. Una goccia di sangue o un frammento di tessuto sono sufficienti per individuare la presenza di un veleno invisibile. Poi c’è la cromatografia, gassosa o liquida, che serve per “smontare” un campione complesso nei suoi singoli componenti, come un filtro che separa ogni sostanza presente in una miscela rendendo tutto più chiaro. Infine, ci sono i test immunologici, rapidi, precisi, e perfetti per rilevare la presenza di droghe o metaboliti specifici in un campione. Insieme, queste tecnologie aiutano i tossicologi a ricostruire quello che il corpo non può più raccontare a parole.
Alcuni dei casi più inquietanti e affascinanti del true crime devono la loro risoluzione proprio alla tossicologia forense. Oggi, grazie a tecnologie avanzate, è possibile rilevare anche la più minuscola traccia di veleno nel sangue o nei tessuti. Ma non è sempre stato così. Nel Seicento, ad esempio, girava indisturbato uno dei veleni più celebri della storia: l’acqua tofana. Una sostanza trasparente, inodore, insapore—e letale. Poche gocce in un bicchiere d’acqua o in una zuppa, somministrate lentamente nel tempo, erano sufficienti per provocare una morte apparentemente naturale. La vittima si spegneva tra febbre, vomito e debolezza e nessuno sospettava nulla. All’epoca, senza strumenti come la spettrometria di massa o la cromatografia, i medici attribuivano quei decessi a “malattie misteriose”. Intanto, l’acqua tofana continuava a fare vittime, spesso su richiesta di donne che volevano liberarsi da mariti violenti o imposti. Oggi, un veleno del genere non passerebbe inosservato: i laboratori forensi analizzano sangue, capelli, tessuti e organi con estrema precisione, smascherando anche i delitti più subdoli. La storia dell’acqua tofana ci ricorda quanto la tossicologia sia fondamentale per distinguere un evento naturale da un omicidio ben orchestrato. Prendiamo un esempio tra i casi recenti come quello di Giulia Tramontano in Italia o della Pilates coach avvelenata in Brasile dimostrano che il veleno seppur sottile e silenzioso è rilevabile ma rimane ancora oggi uno strumento usato in crimini premeditati.
Ma perché ci affascina così tanto tutto questo? La risposta sta in quell’incredibile mix tra scienza, intuito e giustizia. C’è qualcosa di profondamente affascinante nel sapere che una molecola invisibile nel sangue può cambiare completamente il senso di una storia. Nei podcast, nei documentari e nelle serie true crime, il momento in cui entra in scena il tossicologo è spesso quello della svolta: il "plot twist" scientifico che trasforma una morte sospetta in un caso risolto. Dietro un’apparente “morte naturale” può nascondersi un delitto perfetto… finché non arriva l’analisi giusta.