Glifosato, Bayer condannata. Ma ecco cosa dicono i dati sulla tossicità L’analisi della Società Italiana di Tossicologia, tra scienza e bufale
Una giuria USA ha fatto condannare Bayer per oltre 80 milioni di dollari ritenendola responsabile della malattia di un uomo. L’erbicida glifosato, prodotto dalla multinazionale, è anche nel mirino dei movimenti ambientalisti, ma né le giurie né gli ambientalisti sono scienziati. Da che parte sta la verità? Bisogna districarsi nella galassia delle definizioni: secondo IARC il glifosato è «probabilmente cancerogeno», la stessa categoria della carne rossa. Ma non considera che la tossicità dipende sempre dalla dose. E anche se risultasse «sicuramente cancerogeno» la quantità di glifosato da assumere per ammalarsi non è assimilabile dall’uomo nemmeno se si esponesse a impensabili quantità di alimenti contaminati da questa sostanza tutti i giorni, per tutta la vita.
Milano, 19/04/2019. Una giuria statunitense ha riconosciuto a un uomo californiano danni per oltre 80 milioni di dollari, ritenendo che abbia contratto un cancro a causa dell’esposizione al diserbante Roundup, a base di glifosato, prodotto da Monsanto, di proprietà di Bayer. Da anni si discute sulla tossicità del glifosato, per altro nel mirino di numerosi movimenti ambientalisti ma ritenuto sicuro dagli scienziati che si occupano di sicurezza alimentare e ambientale. Si tratta di un erbicida introdotto in agricoltura negli anni Settanta dalla multinazionale Monsanto. Per la sua bassa tossicità rispetto agli erbicidi usati all’epoca è stato molto usato anche in aree urbane, boschi e frutteti.
Per la autorizzazione all’immissione in commercio di qualsiasi fitofarmaco secondo la direttiva comunitaria 91/414/CEE , anche per il glifosato, è stato obbligatorio condurre studi sperimentali di tossicità acuta, di tossicità in seguito a somministrazione ripetuta (fino a due anni) e di cancerogenesi, di tossicità riproduttiva, di tossicità dello sviluppo e di genotossicità (tossicità al DNA) in vitro e in vivo al fine di determinare le dosi considerate sicure per la popolazione nel caso assumesse cibi contaminati da residui dell’erbicida. L’autorizzazione all’uso commerciale, concessa per un certo numero di anni dalla Commissione Europea in base alla valutazione finale di sicurezza di EFSA viene rinnovata periodicamente sulla base dell’esame, da parte di gruppi di scienziati che si occupano di sicurezza sia umana che ambientale, delle evidenze scientifiche più recenti.
Valutazioni relative al potenziale cancerogeno del glifosato, sono state fornite da più organismi internazionali, due appartenenti alla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) cioè la International Agency for Research on Cancer (IARC) e il Joint Meeting on Pesticide Residues (JMPR) che si sono espressi in maniera antitetica in quanto la IARC valuta solo il pericolo intrinseco di una sostanza mentre il JMPR valuta il rischio derivante dall’esposizione ad una sostanza chimica in funzione della dose, cioè definendo delle soglie al disotto delle quali la sostanza viene definita “sicura”. La European Food Safety Authority (EFSA) si è espressa più volte definendo l’uso del Glifosato sicuro a certe dosi di esposizione definendo la Dose Giornaliera Accettabile (ADI) per il consumatore sia adulto che giovane. Anche la Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (US-EPA) ha approvato l’uso del glifosato poiché ritenuto privo di attività cancerogena. Entrambi i termini, pericolo e rischio, servono a stabilire, in maniera scientifica, la sicurezza d’uso delle sostanze chimiche e dei prodotti che le contengono. Quale pericolo, e quale rischio, è associato al glifosato?
A questo punto, se si vuole fare una corretta analisi del problema, anche per riportare equilibrio nel dibattito sui mass media, vale la pena di entrare merito delle definizioni. In tossicologia non esistono i sinonimi: le parole «rischio» e «pericolo» sono spesso utilizzate, nel linguaggio comune, in modo interscambiabile, ma non è così.
«Pericolo» è il modo con cui una sostanza o una situazione possono causare un danno, quindi un pericolo sussiste quando una sostanza o una situazione hanno la capacità intrinseca di causare un effetto avverso. Pericoloso è, per esempio, un veleno. «Rischio» è invece la probabilità che il danno alla persona si verifichi realmente. Quindi il rischio esiste se la persona è esposta (e in quale misura) al pericolo, nel nostro esempio un veleno. Perché se non ci esponiamo (o non ci esponiamo ad una certa quantità, “dose”) a un veleno, esso continua ad essere pericoloso, ma a noi non risulta alcun danno. Così come alcuni funghi molto tossici lo sono sempre, ma se non li cogliamo e se non ne ingeriamo abbastanza tossici non risultano esserlo.
A complicare le cose intervengono altre definizioni (Ecco perché potrebbe essere facile sbagliarsi nel dibattito pubblico, sui mass media o anche da parte di una giuria che non è formata scienziati e tossicologi).
IARC ha classificato il glifosato come «probabilmente cancerogeno». IARC divide sostanze e abitudini in «cancerogene» (gruppo 1), «probabilmente» (gruppo 2) e «possibilmente cancerogene» (grupo 2B). Il glifosato è stato inserito nel gruppo 2A, come la carne rossa e i fumi della frittura. Nel gruppo 1 troviamo carni lavorate ed etanolo, quindi anche salumi e vini tipici del made in Italy.
Questo è quanto sostiene IARC. Ma passando dalle definizioni al caso concreto OMS, EFSA e l’ECHA (Agenzia europea delle sostanze chimiche) sostengono che il glifosato è improbabile che sia cancerogeno. Secondo i dati del JMPR, panel di scienziati interni a OMS e FAO, presi i livelli massimi di glifosato riscontrati nella pasta (0,3 mg/kg, ossia 0.00003%), una persona di 70 kg potrebbe mangiare ogni giorno 230 kg di pasta, senza riportare danni per via del glifosato. Ecco perché la Società Italiana di Tossicologia (SITOX) insiste sul fatto che quando si parla di sicurezza d’uso delle sostanze, non si può prescindere dal parlare anche della dose. E proprio al concetto di dose SITOX dedicherà il prossimo Congresso Nazionale, in calendario a febbraio 2020.
La pericolosità di una sostanza è intrinseca, ed è una caratteristica astratta, mentre il rischio dipende dalle condizioni di utilizzo ed è una stima quantitativa della probabilità che un evento avverso possa accadere. Solo la valutazione quantitativa del rischio è quindi strumento utile a prendere decisioni, mentre applicare esclusivamente la definizione di pericolo per fare valere giudizi è un’operazione fuorviante, da un punto di vista comunicativo, soprattutto quanto induce allarmi nella popolazione.
Per esempio, potremmo portare in tribunale una varietà di sostanze naturali che si sono dimostrate cancerogene nei roditori, come il metil-eugenolo nel basilico, l’acido caffeico nei vegetali, il furfurale nel pane bianco, la cumarina nella cannella, 8-metossiprosalene nel prezzemolo e molti altri altri. Se applicassimo a queste sostanze lo stesso metro che è stato applicato al glifosato, senza contestualizzarle e quindi parlare di rischio effettivo, dovremmo fare causa anche a madre natura che produce le sostanze più tossiche in assoluto come le aflatossine la cui tossicità è milioni di volte quella di qualsiasi sostanza di sintesi mai prodotta e immessa sul mercato, dopo aver compiuto tutte le prove previste obbligatoriamente dai regolamenti comunitari e internazionali e vietare, precauzionalmente, la maggior parte dei cibi che, ad oggi, hanno allungato l’aspettativa e la qualità di vita dell’uomo in Europa e in continenti dove l’uso dei fitofarmaci è addirittura obbligatorio al fine di ridurre malattie endemiche come la malaria e la febbre gialla, solo per fare alcuni esempi.